Ieri nel tardo pomeriggio Giovanni ed io dovevamo andare a vedere se i manutentori avevano definito la sistemazione di un dammuso prima dell’arrivo dei nostri ospiti.
Il Dammuso in questione si chiama Aloe, esattamente come la pianta medicamentosa di cui è attorniato.
L’abitazione, dagli interni raffinati e con un panorama da far girare la testa, ha un porticato ed uno spazio esterno che viene coperto da due vele (n.d.r. vedi foto di sotto).
Nello specifico Giovanni ed io, su richiesta della proprietaria, dovevamo sincerarci che le DUE VELE fossero state messe in opera o, in caso contrario, dare una mano al personale per farlo.
Siamo arrivati in loco alle sette di sera e i signori lavoravano alacremente ma delle vele non vi era traccia.
Abbiamo capito subito che i nostri amici esprimevano delle perplessità, tendevano a posticipare il montaggio delle stesse, avrebbero preferito, assecondando la tradizione, montare un cannizzo da cima a fondo in sette minuti piuttosto che dannarsi nel tentativo di montare le TEMUTISSIME vele.
Era evidente che l’operazione li spaventava, pertanto io e il mio compagno di avventura siamo andati nel magazzino e, come chi la sa lunga, abbiamo tirato fuori questi due triangoli in cordura e li abbiamo posti nello spazio antistante la casa pronti per l’ancoraggio dei drappi.
Abbiamo cominciato a destreggiarci con una certa noncuranza e un pizzico di presunzione mentre i nostri due ci guardavano sornioni.
In capo a due minuti io e Giovanni abbiamo capito che eravamo davanti alla difficilissima risoluzione di un rompicapo modello quadrato di Rubik, oppure la risoluzione del teorema di Fermat o ancora la decriptazione dei messaggi di Enigma.
Per quanto la geometria non sia mai stata il mio forte e anche il mio approccio con lo spazio sia abbastanza confuso, appena vista la foto delle vele sul sito (il cellulare non prendeva e quindi vai in strada e scarica le foto, ritorna, apri l’immagine che non ti si apre e pertanto ritorni in strada e riapri le immagini e ritorni, insomma tutto questo avvenuto, nel frattempo, almeno una quindicina di volte) io ero assolutamente certa di essere in possesso del know how necessario per montare i due drappi.
La verità è che, ovviamente, il mio know how era sbagliato.
Ma la sensazione più drammatica è stata la scoperta che anche quello degli altri tre difettava.
Ad un certo punto abbiamo cominciato una specie di danza, tipo quadriglia, che faceva più o meno così: posa i teli per terra, roteare roteare roteare, far combaciare i lati, roteare roteare roteare, issa i teli e vediamo se combaciano, NON COMBACIANO, posa i teli per terra, roteare roteare roteare, far combaciare i lati, roteare roteare roteare, issa i teli e vediamo se COMBACIANO, NON COMBACIANO.
Questo per almeno ventidue volte, alla ventitreesima, che erano le nove di sera ed era calata una brezza che avevamo peli e capelli irti, le vele finalmente COMBACIARONO.
Io non sono particolarmente credente, ma alla fine di tutto questo, uno sguardo al cielo l’ho rivolto con tanto di ringraziamento.
Ba, dodostante il ringraziabento, stabattina bi sodo svegliata con un tremendissibo raffreddore.
Foto di Giovanni Matta