Per la prima volta l’ho incrociata un sabato.
Mentre in auto percorrevo l’isola l’ho scorta, d’un tratto, sul ciglio della strada.
Nei pressi di uno di quei minuscoli borghi che danno sapore e identità a questo posto, lei, nel suo grembiule di cotone, percorreva la viuzza, una mano al bastone ed un’altra a sostenere il fianco, da sola e con la mascherina prudentemente indossata a coprire bocca e naso, lì dove a transitare era solo qualche veicolo ogni pochi minuti e nessun altro intorno.
Nessun passante, nessun ingorgo, due file di case e lei che, scompigliata da un Maestrale che conoscerà meglio delle tasche del suo prendisole, camminava, con la flemma di chi non conosce alcuna fretta.
Sul ciglio di una viuzza che, se non ci passi che proprio devi, potresti anche pensare che non esista.
L’immagine mi ha colto alla sprovvista e mi è rimasta impressa.
L’ho raccontata, come si raccontano certi quadri dentro i quali resti imprigionato per qualche attimo.
Poi mi ha lasciato.
Il giorno dopo, nei miei soliti giri del fine settimana lungo e lavorato, ho ripercorso la stessa strada e me la sono ritrovata di nuovo lì davanti: stesso luogo, stesso cammino, stesso incedere lento come di chi ha aspettato tanto e adesso si gode un tempo infinito fatto di attese che non hanno più niente di sorprendente ma che, allo stesso tempo, intiepidiscono il cuore.
Camminava avanti e indietro a passi regolari, come fosse la prima volta nella sua vita.
Le circostanze hanno voluto che due giorni dopo io ripercorressi questa piccola via di questa IMMENSA E SORPRENDENTE PANTELLERIA e lei è apparsa come la più bella delle conferme.
Un’anziana canuta che ha deciso che il viaggio non consta di grandi distanze ma di piccoli passi calibrati dentro un tempo calmo e silenzioso.
La immagino così, a raccogliere la pazienza di cui non siamo più capaci.
Foto di David Monje