L’argomento è delicato e merita, a mio parere, una riflessione.
Il tema è l’incendio divampato nella zona di Gadir, a Pantelleria, ventuno giorni fa.
Ventuno giorni mi sembrano un tempo buono per l’elaborazione di un ragionamento che possa essere di buonsenso.
Vi racconto cosa mi è accaduto quella notte.
Alle ore 01.26 del mattino squilla il mio telefono e a chiamarmi è il mio ex marito che vive negli USA.
Mi allarmo immediatamente (cosa avrà da dirmi a quest’ora di notte?!) e, in effetti, non appena rispondo mi accorgo che il tono della sua voce è piuttosto concitato.
In primis mi domanda come sto, domanda alla quale (data l’ora e lo stato lievemente confusionale) devo avere risposto in maniera incongrua.
Pertanto, mi incalza con una serie di domande sull’incendio alle quali, nel mio dormiveglia, rispondo in maniera sicuramente vaga e scoordinata, fino a che lui non si spazientisce e mi dice:
“Insomma, Claudia qui dicono che stanno evacuando tutta l’isola di Pantelleria. Tu quanto disti dall’incendio?”.
E io, aggrappandomi a quel briciolo di lucidità che mi auto impongo, rispondo che l’incendio è a circa venti chilometri da casa mia.
L’ex marito, rassicurato benché perplesso, chiude finalmente la telefonata.
E io torno a dormire.
Di fatto al mattino, appena sveglia, trovo sulla mia icona di WhatsApp un incredibile numero di messaggi.
Apro il profilo e le domande erano tutte lì: innumerevoli, affannate, preoccupate, veementi, affettuose, dolci e premurose.
Tutti lì a “chiedere” per sapere come stessi, come fosse ridotta l’isola, le persone e l’anima di questo luogo.
Ho risposto a tutti per quel poco che sapevo, come loro, dalle notizie riportate dai giornali e dal web.
Rinnovando a ciascuno, la promessa fatta in cuor mio, di andare a vedere il prima possibile
cosa fosse realmente accaduto.
La vista che mi si è presentata innanzi è stata desolante e dolorosa.
Circa sessanta ettari di macchia mediterranea distrutta.
Tutta la Cuddia Catalana nera e ancora fumante.
Brutto e triste e nessun’altra parola.
Ma nessuna evacuazione dall’isola intera, solo pochi sfollati in misura precauzionale.
Un danno irrimediabile, ma non il terrore diffuso in maniera globale a cui è stato data voce.
Non era una immagine da disastro totale quale ce l’avevano raccontata.
Con un’associazione immediata ho ripensato alla bruttissima vicenda della tromba d’aria del settembre dell’anno scorso, nel quel caso andarono perse due vite preziose.
Ma il racconto fatto dai giornali (e per questa ragione allora non volli scrivere niente: nel rispetto dei defunti e in totale disaccordo rispetto alla narrazione) fu di un evento catastrofico.
Devastazione, case divelte, muri abbattuti.
Inutile dire che i danni ci furono, ma non nel modo e nella proporzione in cui vennero narrati.
Ecco, da questo sensazionalismo mi dissocio.
Perché alle immagini del rogo, sulla faccia opposta della stessa medaglia (dove farsa e tragedia si contendono i ruoli), due giorni dopo i giornali esponevano una foto dei visi sorridenti dei vigili del fuoco e dei VIP tratti in salvo.
I fatti accadono e meritano di essere raccontati con onestà intellettuale.
Ettari di mirto, lentisco, ginestra ed elicriso sono andati perduti (con loro tutta la microfauna da macchia) e ancora oggi resta acre e forte l’odore di quel fumo, come un nodo in gola che stenta a sciogliersi.
Ma tutti gli eventi hanno una dimensione.
Possiamo misurarla in emozione, in gioia, in dolore, in perdita.
La scala dei sentimenti è vasta.
Ma il SENSAZIONALISMO non è la misura di un accaduto né di un accadrà.
É solo il racconto SOVRADIMENSIONATO di una paura che ci guarda fissa nel tentativo di paralizzarci.
Non sono più fatti.
Non è più giornalismo.
Chiedo scusa a chi non si troverà d’accordo con me.
Foto di Barbara Monteleone