Circa venti gatti o più ancora.
Chissà, non sono mai riuscita a contarli.
A casa non avevano accesso ma Angela aveva “passiature” e terreno circostante disseminato di ciotole con cibo e acqua e tanti piccoli rifugi per loro, dal sole cocente o dalle raffiche dal Maestrale di Pantelleria.
Angela mica era ricca, aveva un buon cuore.
La scorsa estate ad un tratto mi ha chiamata, aveva bisogno di cianciare su mille cose: i dolori, l’artrite, il favo di api dentro il muro in pietra lavica, i gatti (appunto i gatti) quella sorella che non si era ripresa.
Gli anziani non si danno pace per certe cose.
Nessuno riesce a darsi pace per certe cose.
Che siano le articolazioni o il cuore, che sia il cuore vero o quello che usiamo come metafora per indicare un contenitore che nutre allo stesso tempo gioia e pena, esiste sempre qualcosa nei nostri ingranaggi, più o meno arrugginiti, che cigola più del resto.
E questo suono stridente lo sentiamo mentre ci chiniamo a raccogliere lo strofinaccio caduto o il momento trascurato o lo avvertiamo, con insistenza, in fondo a nottate buie durante le quali i nostri meccanismi fanno più rumore di cento pistoni messi insieme.
E il cuore pompa sangue, tra tempie e cervello.
Certe notti infarcite di secondi che sono martelli pneumatici.
Alla fine della nostra chiacchierata Angela mi ha detto: “E’ stato brutto quest’anno, un anno brutto – ché a ripeterlo gli dava ancora più forza – perché non vi ho potuto cucinare né le polpette di pesce né il pesce con la cipollata.
Certi anni li vedi che sono brutti da queste cose e non te ne liberi più”.
Io ho sorriso lì per lì.
Ho pensato che per le polpette ci sarebbe stato altro tempo.
E invece no, certi anni li vedi che sono brutti da queste cose.
Quanto al liberarsi, posso immaginare.
Ma non dico.
Foto di Claudia Picciotto