Il Pantesco come ponte tra culture: una storia di integrazione e speranza

Il Pantesco come ponte tra culture: una storia di integrazione e speranza

L’altro giorno ero in uno delle mie pause tra un ingresso e un saluto.
Seduta al tavolino del bar U Trattu (che è quasi estensione di casa) sorseggiavo il mio caffè e mangiavo una cassatella alla ricotta alla quale mancava solo la parola.
Totalmente assorta nei miei pensieri.
Quando per caso mi accorgo che al tavolo accanto al mio sedevano due ragazzi in abiti da lavoro: uno di origini nordafricane e l’altro, probabilmente, dell’est Europa.
Colori totalmente differenti, luoghi di provenienza distanti migliaia di chilometri, lingue che non si somigliano da nessuna parte.

Eppure parlavano, parlavano fitto.
Sapete in che idioma?
Parlavano in Pantesco.
Ciascuno col proprio accento di provenienza ma in pantesco.
È stato questo che, di primo acchito, ha acceso il mio interesse.
Poi ho cominciato ad ascoltarli.

Erano felici come due bambini.
Continuavano ad appellarsi l’un l’altro “Amicu me” (n.d.r. amico mio).
Finalmente avevano trovato casa e se lo raccontavano.
Una casa piccola che costava poco ma con un bel giardino intorno.
“E possiamo fare un orto”, si dicevano l’un l’altro.
Un orto in cui piantare la cipolla, l’insalata, le verdure.
Cose da mangiare, insomma.
Dicevano in dialetto: “A noi non fa paura lavorare, non abbiamo il trattore ma useremo la zappa”.
E continuavano a complimentarsi l’uno con l’altro, per questa casa che li avrebbe accolti l’indomani.

Emozionati e entusiasti.
“Non vedo l’ora che arrivi domani”, continuavano a ripetere.
E a me tutto questo mi ha dato speranza.
Mi ha fatto pensare che un dialetto può diventare un ponte per intendersi, che una casa significa molto più che un tetto e che una cipolla talvolta può bastare a condire un’esistenza intera.

 
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