I nostri genitori il traghetto lo chiamavano “Postale”, perché nel suo “ventre” portava la posta dal continente alla Sicilia.
Per decenni la nave che da Napoli attraccava a Palermo ha avuto questo nome.
Evocativo e fascinoso.
Quello che oggi definiremmo un LINK tra due mondi effettivamente differenti.
Anche le isole minori hanno avuto il loro postale.
I moli di attracco erano esposti, difficili, suscettibili ai capricci della meteorologia e del mare.
Costretti spesso a fare ritorno al porto di provenienza perché il moto ondoso non consentiva un attracco sicuro.
Il Postale messo alle strette, talvolta si avventurava perché isole come Pantelleria, Lampedusa, Linosa avevano la necessità di ricevere acqua e cibo, più ancora che della posta.
Mio padre era uno spedizioniere.
Suo padre sul finire del decennio del 1870 aveva creato la “Picciotto Florio”.
Riempivano la “pancia” delle navi di merce che spedivano nel continente, altrettanta ne ricevevano da sbarcare al ritorno.
Già, eravamo Florio nel sangue sembrerebbe, natali che ci legano alla gloriosa e decadente famiglia.
Ma mio nonno non apprezzò, al tempo, alcune politiche poco “trasparenti” e tempo dopo decise di creare la Ditta Picciotto e di rinunciare ad un cognome che non lo rispecchiava.
Bastava il Picciotto (cognome di origine ebraica) a giocare contro un mondo che stava andando per il verso sbagliato.
Picciotto sì e con tutti gli onori.
Florio era un onere al quale preferì rinunciare per ragioni di cui non sono mai venuta a conoscenza.
Così nacque l’agenzia di spedizioni Picciotto, monopolista dentro il porto di Palermo.
Decise allora che era arrivato anche il tempo per diventare un armatore.
Acquistò tre navi mio Nonno Ciccio.
Abito nero, papillon e camicia bianca stirata alla perfezione da Nonna Lilla (vezzeggiativo di Rosalia, nome della Santa protettrice di Palermo).
La leggenda narra che in una sola notte tutte e tre le sue navi, da poco varate, a causa del mal tempo affondassero e che d’improvviso, nel breve arco di otto ore, i suoi capelli rosso tiziano diventassero interamente bianchi.
Famiglia numerosa quella di Nonno Ciccio e Nonna Lilla otto figli: cinque maschi e tre femmine.
Le donne cresciute tutte per aiutare la madre in casa e i maschi tranne Ludovico (diplomato sedicenne anni a Palermo, laureatosi in medicina a ventuno a Napoli e “ingaggiato” per sempre nella capitale campana con Donna Adriana, dai nobili natali) e Cesare, mio padre (che unì l’insegnamento al lavoro al Porto di Palermo) gli altri, tutti, figli di una DITTA che non li avrebbe mai “abbandonati”, che non avrebbe mai concesso loro un giorno di vacanza.
Mai un Natale, un Capodanno o una Pasqua, le navi vanno e tornano sempre (o quasi).
Il Porto di Panormus (questo l’antico none della città’ di Palermo, il cui significato è proprio “tutto porto”) come una madre” ossessiva e presente fino all’ultimo giorno della loro vita.
Io, forse, ho conosciuto il ventre di una nave prima di quello di mia madre.
Sicuramente il primo l’ho visitato in tutti i suoi anfratti e per più tempo di quanto non abbia vissuto in quello materno.
Ho viaggiato in nave da neonata e ho continuato a farlo da adulta.
L’odore del gasolio e dell’olio delle cinghie dei motori mi è familiare.
La sveglia alle cinque del mattino prima di attraccare al porto di Napoli per guardare dall’oblò della cabina la scia dei delfini al seguito della nave è uno tra i ricordi più belli e indelebili della mia infanzia.
Per questo, ancora oggi, la vista di una nave in lontananza, il suo procedere apparentemente lento, vedere staccare gli ormeggi dalla banchina, il mio entrare dentro un “Postale” ha una potenza evocativa degna del sapore burroso di una Madeleine.
E anche per questo oggi vi racconto questa storia, perché per me arrivare o tornare da Pantelleria in nave è il VERO VIAGGIO.
Quello insostituibile, quello che mi dà la misura e il senso dell’allontanarsi dalla terra ferma per approdare da un’altra parte.
Terra ferma anche quella per quanto piccola.
Ma estranea a quella “che mi ha partorito”.