Il viaggio è terminato e devo andare via da Pantelleria.
“E mi raccomando, al momento di andare via lasci la chiave nella nicchia accanto al bauletto in legno, è sufficiente che chiuda la porta dietro di sé tanto qui non tocca niente nessuno”.
La prima persona a cui ho pensato quando il proprietario del dammuso mi ha detto questa frase è stato mio nonno che con una nostalgia, per me assolutamente incomprensibile, mi raccontava che “ai tempi di Mussolini” si poteva dormire con le porte aperte; la seconda è che continuo a non capire la sua nostalgia per quel tempo ma comprendo perfettamente la mia di adesso, mentre mi accingo a lasciare la chiave della porta esattamente dove il proprietario mi ha indicato di riporla.
Io a Pantelleria ho vissuto in una libertà estrema, magari per alcuni tutto ciò sarà normale, ma dimenticare di chiudere la porta a chiave, come mi è capitato un giorno, ha fatto sì che non dovessi affrettarmi a scendere da Montagna Grande per andare a chiudere con tre mandate l’uscio di casa.
Allo stesso modo tante volte, mentre facevo la spesa, ho lasciato appese al cruscotto le chiavi dell’auto senza alcuna apprensione e mia figlia, mi ha detto in visibilio, che non era nemmeno necessario togliere le chiavi dal cruscotto della moto mentre prendeva l’aperitivo con gli amici.
Sono piccole le cose che ci fanno sentire schiavi o prigionieri, non ti rendi conto nemmeno conto che da qualche parte stai subendo fino a quando qualcuno o qualcosa non te lo ricorda.
Pantelleria ha aperto la porta della mia prigione, per quindici giorni, adesso ho appena consegnato la chiave a chi non è mai stato un secondino.
Al mio ritorno in città sarà come aprire un cancello dopo un altro e doverlo richiudere dietro di me.
Mi resta la consolazione che questa isola continui ad esistere, con o senza di me.
Foto di Giovanni Matta