Il tempo cancella alcuni ricordi ma fissa delle immagini, delle sensazioni.
Non ricordo per esempio perché mi trovassi a Pantelleria in quel periodo, immagino che mi portassero lì ragioni di lavoro, ma quali fossero esattamente quelle ragioni davvero non lo ricordo più.
Di quei giorni però si sono fissati dei frammenti. Alcuni momenti si sono cristallizzati e tornano, a volte, quanto un momento analogo li rievoca.
Di quei giorni, per esempio, ricordo il contatto con persone nuove che non avevo mai conosciuto sull’isola prima di allora. Esse sembravamo comporre una piccola comunità che per interessi, appartenenza, desideri e sogni, si coagulava attorno ad un minuscolo nucleo territoriale. Si tratta di una piccola enclave agricola ancora oggi poco conosciuta, stretta fra Gadir e Punta Spadillo e generalmente conosciuta come Cala Cottone (o più semplicemente “la Caletta”). Pochi ettari strappati alla lava e alla macchia mediterranea da quella incredibile agricoltura pantesca che definire “eroica” è riduttivo.
Mentre scrivo mi sembra di ricordare che la mia relazione con quel luogo passasse forse da una qualche pratica autorizzativa relativa a quella zona che era compresa nella riserva naturale e che riguardava non meglio definite attività agricole.
In quei giorni il mio anfitrione era Angela. Una donna pantesca andata via presto dall’isola, vissuta a lungo altrove è tornata dopo tanto tempo con un nuovo accento ma identica, nel carattere e nella caparbietà, ai tanti che invece non avevano mai lasciato l’isola. Tornata per restare, Angela era una delle animatrici di quella piccola comunità che ogni anno si riuniva in quel luogo per celebrare la “festa della caletta”. Immagino che si trattasse di un rito che Angela aveva inventato di sana pianta per creare il gruppo e per dargli identità attraverso la creazione di un rito che fornisse uno dei pretesti dei quali un gruppo ha bisogno per ritrovarsi, per incontrarsi, per svolgere relazioni e pensieri condivisi.
Come dice il mio Maestro: “il cibo e le bevande lubrificano le relazioni” e anche in occasione della “festa della caletta” il cibo e le bevande erano protagonisti e svolgevano adeguatamente il loro ruolo.
Ricordo bene, invece, che quell’anno io fui invitato alla festa. Ricordo anche che fu una giornata luminosa e fresca di una stagione che non è più nella mia memoria. Ricordo il cibo più per la gioia della condivisione che per il gusto, ricordo il vino più per le battute e le discussioni che produsse che per il profumo. Ricordo soprattutto la vivacità di una piccola comunità che sfidava il tempo, le condizioni imposte (e un poco anche le istituzioni) nel tentativo di capire (come diciamo noi siciliani) “di che morte doveva morire”. Che poi forse veramente quella comunità è morta, si è estinta, come molte cose in questi anni, oppure è ancora lì e, come in “Cronache Marziane” di Bradbury, sono solo io terrestre convinto di vivere circondato da terrestri sul suolo marziano a non accorgermi più dei marziani, autoctoni, indigeni, che su Marte continuano a vivere. Ma questa è un’altra storia.
Un’altra cosa che ricordo è quando alla fine della giornata Angela mi disse che voleva portarmi a vedere una cosa. Angela mi aveva raccontato di una delle passioni che aveva sviluppato da quando era ritornata sull’isola: allevava le api. Alla fine della festa mi condusse quindi su un antico basolato che dalla perimetrale risaliva lungo le lave del Kaggiar. Dopo pochi metri si fermò davanti ai resti di un’antica cisterna in parte sventrata e collegata ad un dammuso del quale restavano solo tracce esigue. La cisterna e il dammuso avevano continuato nonostante tutto a fare il lavoro che ogni dammuso e cisterna fa prima di tutto a Pantelleria da secoli e anche quando l’uomo, essere disattento e scostante, perde interesse in loro e li abbandona: avevano continuato, con fedeltà monolitica, a raccogliere acqua. Angela si fermò e mi disse. “vedi Francesco, io passò ogni tanto da questa cisterna che non è tanto lontana da casa mia. Lo faccio soprattutto nel periodo estivo. Questa specie di mio rito intimo e segreto serve a restituirmi fiducia nelle cose, a farmi credere che le cose magari non miglioreranno per come io spero ma potranno mantenersi almeno uguali e buone come sono sempre state. Quando io passo da qui e vedo che c’è acqua, anche d’estate, io mi rassereno e dormo sonni più tranquilli perché so che in questo modo le mie api avranno sempre acqua dove abbeverarsi e non rischieranno di morire di sete nella caldissima estate pantesca”.
Proprio mentre me lo diceva alcune delle api (mi piace immaginare) di Angela bottinavano il liquido sulla superficie di alcuni sassi madidi che Angela stessa aveva messo sul bordo della cisterna per evitare che le api annegassero nel tentativo di abbeverarsi.
Lì per lì derubricai quella confessione e quel dono a poco più di una delle tante considerazioni bislacche che chi conosce e frequenta Pantelleria sa essere argomento di discussione fra coloro che “vivono l’isola” e quelli che “vivono sull’isola”.
Molti anni dopo avrei cominciato anche io ad allevare api in un altro luogo della Sicilia. Semmai i miei bambini un giorno dovessero leggere questa storia scopriranno perché ogni volta che torno a casa, per ragioni a loro inspiegabili e incomprensibili, io mi fermi accanto a quella cisterna lungo la via Chiovaro, frutto di un’altra storia agricola, altre abilità ed altri bisogni, e constatata la presenza di acqua, torni sorridente al mio posto per rientrare assieme a loro a casa.
Scritto da Francesco Picciotto
Foto di Giovanni Matta