Ma i damMUTI parlano?

Ma i damMUTI parlano?

Ehi gente, questo DammuTo è bellisimo”, due anni e mezzo anni di occhi neri la cui iride si confonde con la pupilla.
Ridiamo tutti benché l’errore non sia dei più gravi, però lei che ancora non padroneggia dentali e liquide e ne dice così tante che la tenerezza ha la meglio.
Anche se la risata magari non è un esito pedagogicamente felice
Così, in qualche modo, poi cerchiamo di correggere il tiro.

“Si dice Dammuso, tesoro, con la ESSE”, riprovaci.
Le facciamo ripetere la parola fino alla nausea: “Tono ttanca che voglio fale finta di ettere un opottum, potto?”.
E allora è un sì corale con tanto di abbracci e coccole con un retro pensiero appena crudele che, sotto sotto, ci induce a pensare (con quel poco di egoistica cattiveria tipica degli adulti): “Lasciala così, piccola, con le sue sbavature linguistiche e questa buffa ingenuità che ci fa sentire illustri e sapienti, perché tutto questo è tenerezza PURA”.
Di fatto, noi cresciuti abbiamo solo “digerito” liquide e dentali ma non il resto della vita che ci è passata di sopra.
Pensiero veloce.
Poi arriva l’aspetto pedagogico didattico, ché noi adulti non sappiamo tacere e ci piace un sacco impartire lezioncine.

Allora la prendo per mano, la porto fuori e cominciamo a fare un giro attorno al “DammuTo” e comincio a parlare come se stessi parlando con me ma alla ricerca di parole che possano rimanere dentro la sua testolina svogliata ma curiosa:
“Sai bimba mia quello che tu chiami Dam-MUTO, muto (come se non parlasse) è un posto pieno di parole e di un sacco di storie. È molto (ma tantissimo) più vecchio dei tuoi genitori e se avesse una bocca potrebbe raccontare un sacco di storie: storie di persone che si muovevano su questa isola con gli asini perché non esistevano le auto.
Poi le vedi queste pietre? Vedi quanto sono grandi e pesanti? Immagina che le tiravano fuori da quella roccia nera che vedi al mare e che viene dal vulcano che dorme.
Sai, le intagliavano con degli attrezzi appuntiti che costruivano con le loro mani, con tanta forza e molta pazienza (non esisteva quella cosa che tu, ogni tanto, vedi in città che fa tanto rumore e buca l’asfalto manco fosse marzapane), sai che questi signori esistono ancora e li chiamano “maestri di pietra”?
Immagina quanto devono essere bravi per essersi meritati di essere chiamati MAESTRI.
Questo dammuSo, se potesse ti racconterebbe la storia di tutta la gente che è arrivata su questa isola in tantissimi anni e ha deciso che era casa sua e ognuno ha sistemato un poco questo tipo di casa, come fai tu con certi giochi su internet, dove sistemi il fienile in quel posto, le galline in un altro e poi noi ti togliamo il cellulare per mandarti a giocare all’aria aperta.
Loro non giocavano, costruivano a mani nude per avere una casa bella e sicura.
Allora hanno costruito le mura grosse e spesse per proteggersi dal caldo e dal freddo, che su questa isola il tempo è “capriccioso” come te; hanno fatto queste mura esterne (che non sono dritte come quelle di casa nostra) e tetti tondi perché la pioggia potesse scivolare bene e raggiungere un pozzo grande grande dove raccogliere l’acqua.
Perché su quest’isola piove poco e dovevano pure bere e cucinare e fare crescere quel limone che vedi lì solo soletto dentro quel cerchio magico dove ti piace entrare e poi, dovevano pure dare acqua ai pomodori che tu mangi a morsi giganteschi.
Insomma, da questa casa è passata tanta gente e se questa casa avesse una bocca larga, come la rana della barzelletta, sai quante storie ti potrebbe raccontare?”.

Nel frattempo mi ha già lasciato la mano e si è fermata due passi dietro me, così mi giro per guardarla.
E’ l’imbrunire e la scorgo a mala pena ma i suoi grandi occhi neri si sono allargati come quelli di un fumetto giapponese, ingoia che sembra le sia andato il boccone di traverso, raccoglie tutto il minuscolo coraggio che ha in sé e mi dice: “Fottuna che lo chiamo DamMUTO che a me quetta cota che potlebbe pallale mi fa tanta PAIUIA. Pel quetta sela pottiamo fale un gioco?”.
Penso di avere esagerato e accordo subito il permesso, senza neanche sapere di cosa si tratti, così lei mi dice: “Quetta sera facciamo che l’opoTTum è il DamMuto, cotì retta muto e io che tono ancora piccola vengo a dolmile in mezzo a voi, babene?”:
Mi abbasso e la stringo a me fortissimo.
Implorando, contro il tempo e la sapienza (che può sempre attendere), di lasciarmela così: pura, piccola, “ignorante” rispetto a tutto ciò che i giorni e la vita le insegneranno.
E coraggiosa quel tanto che basta da renderla serena.

Foto di Giovanni Matta
 

 
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