Pantelleria e la sua VOCE multietnica
Bisogna sapere leggere Pantelleria, non fosse che spesso è scritta in arabo.
No, fermi tutti, parla anche il latino.
Stavo per dimenticare il siciliano, quello stretto.
L’italiano anche, ovviamente.
Ma pure il greco.
A cominciare dai nomi delle strade, passando per i paesini, fino ad arrivare al cibo e alle parole di uso comune.
Atterrare a Pantelleria è come approdare in un hub a metà tra presente e passato, dove le lingue si incrociano e si mescolano in un pot pourri in evoluzione costante.
La VOCE di quest’isola corre per le cuddie (dall’arabo, significa colline), poi stanca siede in una ducchena
(dall’arabo, significa sedile in muratura) a prendere un po’ di fresco nel passiature (dal siciliano, il passiature è il terrazzo coperto, ma è anche, e non a caso, il nome dialettale del geco endemico dell’isola).
La voce stanca e vecchia, di tanti anni, si ripara all’ombra del cannizzo (dal latino, riparo fatto con le canne) e nel mentre ne approfitta per mangiare un poco di Kukkuruma (dall’arabo, pietanza di uova e verdure) insaporita dalla giuggiulena (dall’arabo, il sesamo).
A Pantelleria anche una VOCE ama fare la pennichella, pertanto si rifugia nella sua alcova (dall’arabo, camera con tetto a volta) per gustarsi le sue due orette di sonno prima di andare a scialare (dal latino, divertirsi).
Appena sveglia, tra uno sbadiglio ed un altro, affacciata alla porta del Dammuso (dal siciliano, volta) scruta l’orizzonte e intravede, aggrappata alla cuddia, la muffura (dal latino, nebbia) dello scirocco.
Col suo incedere, lento la VOCE cammina verso il paese, la gente mormora, che sia una che “firria ntunnu” (dal siciliano, qualcuno che perde tempo perché ha poco da fare ed ama spettegolare) ed è anche saputa (un mix di latino e italiano, presuntuosa).
Chi lo vocifera, e con un certo disappunto, avrà anche le sue ragioni.
Ma una domanda la faccio a tutti voi: come si fa a mettere a tacere una VOCE?
Foto di Giovanni Matta