Questa foto Giovanni l’ha scattata i primi di settembre a Pantelleria.
Eravamo al porticciolo di Scauri quando ci siamo imbattuti in questa immagine, che poi è una storia e che infine è uno strazio.
Ci siamo avvicinati lentamente, come se camminassimo in punta di piedi e in silenzio, per non disturbare chissà chi o cosa.
Abbiamo girato attorno ai resti del gommone scorgendo, qui e lì, i resti delle speranze riposte lì dentro.
Solo dopo diversi minuti abbiamo avuto il coraggio di guardarci negli occhi.
Abbiamo avuto bisogno di un po’ più di tempo prima di riuscire a rivolgerci la parola.
Lo scatto è stata la prima mossa che ci ha rianimati.
Immortalare per non perdere.
Per dare una “chance” alle nostre coscienze.
Perché ne scrivo solo oggi?
Perché ho avuto bisogno di metabolizzare quello che ho visto e tutto quello che ho immaginato o creduto di vedere.
In questo fotogramma risiedono così tanti pensieri che, ancora oggi, provare a metterli in ordine (anche sparso) resta per me una prova veramente dura.
Pubblicare certe immagini è già una grande assunzione di responsabilità.
Commentarle o anche solo provare a trasmettere le proprie emozioni al fine di indurre in se stessi e negli altri spunti per una riflessione consapevole trovo sia un impegno ancora più grande.
Impegno che dovrei a me stessa e a chi mi leggerà.
La prima domanda che mi sono fatta vedendo quel che restava di un viaggio apparentemente portato a termine è stata: quanti chilometri da “percorrere” (migliaia) restavano alle persone che fino a quel momento avevano “soltanto” concluso una traversata?
Per quanto ci abbia provato non sono riuscita a immaginare i loro visi né quanti fossero, il che ha consentito al mio IO “ignavo” di tirare un sospiro di sollievo.
Allo stesso tempo alla mia mancanza di coraggio hanno fatto buona compagnia un gran senso di disperazione e frustrazione.
Mi sono posta domande banali: avranno mangiato?
Avranno avuto acqua a sufficienza?
Avranno patito il freddo?
Ho dato per scontato che fossero approdati tanti quanti fossero partiti.
Faceva bene alla mia coscienza.
Mi sono domandata dove fossero ora, come stessero e mi sono raccontata la favola di un mondo “pietoso” che li avrebbe accolti come uomini SALVI o da salvare.
Sul fondo di quel gommone sono rimaste delle tracce, non so se le vedete anche voi.
Sono sfocate ma se fate attenzione si intravedono.
Tra indumenti e coperte io scorgo la disperazione e il coraggio di chi ha compiuto questo viaggio, prepotente affiora la dignità della vita umana, qui e lì sparsi tra gli oggetti è rimasta la paura, attorcigliata a quel telo mare vedo la via di fuga da una prigione, attorno, tutto attorno, fuori da quella imbarcazione risaltano tutte le ingiustizie del mondo.
In ultimo, sul pavimento di quella imbarcazione è posata una scarpa.
Qualcuno l’avrà perduta.
È una scarpa che ciascuno di noi dovrebbe fare lo sforzo supremo di provare a indossare.
Uno sforzo di immaginazione.
Ed è in questa tensione, in questo stramaledetto tentativo di “calzare quella scarpa” che il mio pensiero si perde.
Così il mare smette di essere blu per diventare tutto nero.