Mentre gusto la mia insalata di patate, cipolla rossa, pomodoro e capperi di Pantelleria mi viene in mente una vecchia pubblicità di un dentifricio.
Il cappero di Pantelleria è quel fiore, inizialmente bocciolo verde, diventato, nel tempo, delizia per il mio palato.
Lo assaporo anche riconoscendo il giusto merito a chi con dedizione lo ha coltivato e curato.
Perché, che sia selvatico o di coltura, fare arrivare questo fiore sui nostri piatti è un bel lavoro di pazienza e dedizione.
Chi lo pianta (e a Pantelleria di uomini e donne coraggiose e pazienti ne esistono ancora) cerca un terreno sciolto e prepara un fondo pietroso, perché l’arbusto, che dispiega a “gran voce” indipendenza ed autonomia, non solo non ha bisogno di molta acqua ma addirittura ne pretende proprio poca e, a dirla tutta, preferisce abbrustolirsi al sole.
Inoltra ci mette tre anni circa prima di diventare fertile, diciamo che fa tutto con i suoi comodi, e quando decide che è il suo tempo comincia a fare questi piccoli germogli.
Ma il coltivatore deve essere solerte e mattiniero, da maggio a settembre, dovrà alzarsi alle prime luci dell’alba per andare a raccogliere questo minuscolo fiore prima che si schiuda, frugando tra le foglie di ogni arbusto e raccogliendo, uno ad uno, i piccoli germogli.
Nel tardo pomeriggio, dentro una giornata che non finisce mai, questo instancabile raccoglitore torna tra i cespugli a sgranare uno ad uno i piccoli boccioli.
E se a maggio i fili sono tutti pieni e trascinare, con un movimento lesto della mano tanti capperi in una sola volta, è lavoro di abilità e maestria; ad agosto, quando il sole alle otto del mattino è già alto e picchia forte e già da tre ore lavori piegato su un terreno che emana calore, i filari ormai hanno rami dai boccioli sparuti e la ricerca diventa dura.
Perciò è un curvarsi ed issarsi incessante, per colmare un contenitore da otto chili che sembra non avere un fondo.
Riposto in una ombrosa cantina il cappero e il tempo continueranno a dettare legge: dentro grandi contenitori, e con abbondante sale, bisognerà attendere che maturino.
E per quasi un mese chi se ne prenderà cura dovrà, quotidianamente e più volte in un giorno, mescolare attentamente i fiori nei tini, cambiare loro la salamoia e a tempo debito travasarli.
Tutto questo senza che passi un giorno dimenticandosene.
Raccontarlo è come narrare una favola antica.
E’ tutto così estraneo alla fretta sbandata e sbadata dei nostri giorni, che sembra provenire da un passato che non ci appartiene più.
Ma io li vedo ogni giorno questi uomini e queste donne che dovrebbero avere le spalle curve come di chi conduce un peso insostenibile e invece hanno schiene ben dritte.
Rese tali dalla fierezza di chi non si arrende allo sforzo, di chi con la terra non si sporca, anzi, tutte le volte che ne calpesta una zolla lascia una impronta che sa solo di nobile fatica, orgoglio e dedizione.
Foto di Giovanni Matta