Un racconto per il Dammuso Tramonto

Un racconto per il Dammuso Tramonto

“Non sparare cazzate, papa’ ”, grida dalla camera da letto.

Io sono seduto sotto il cannizzo, ho ancora gli occhi umidi e le palpebre pesanti, sveglio da qualche minuto il mio cervello elabora al rallentatore.

“Che non esista sull’isola un dammuso con due camere da letto non ci credo”, è spuntato alle mie spalle e il suo tono è perentorio.

“Ma questo si chiama TRAMONTO”, dico con voce flebile.
“E che cazzo papà, mica avevamo deciso di andare insieme in luna di miele”, scosta bruscamente la sedia e ci si accascia con fragore, scivola un poco di schiena e allarga le gambe.

Con una lieve torsione del collo ed un impercettibile e discreto movimento degli occhi mi metto ad osservare le sue gambe: sono lunghissime, magre avvolte da sottilisimi ma ben torniti muscoli, una peluria bionda si confonde con tante piccole lentiggini e minuscoli nei, penso a quando lo vedo camminare da lontano, a quando mi viene incontro, con la sua testa che ciondola, con quella espressione che è sempre tra il corrucciato e l’incerto. Ha i piedi lunghi, e le dita sono anche quelle affilate, al lato dei talloni noto delle piccolissime ferite.

Lo guardo e, indicando i piccoli tagli, gli dico: “Che ne dici se te li disinfetto?”

“Ma ti sei ammattito papà? Credi che non mi sia accorto che hai fatto un’accurata perlustrazione dei miei arti inferiori? Non so, vuoi che mi metta in piedi, prendi un metro e mi misuri? Mettiamo una tacca sul muro e, l’anno prossimo, quando torniamo al “nostro” TRAMONTO vedremo insieme quanto sono cresciuto? Scendiamo in paese e compriamo i cerotti, papa’? Secondo te li vendono qui quelli con SpongeBob?”.
Rido, con la testa piegata all’indietro, adesso sì, sto ridendo di gusto. Con due mani mi tengo il ventre e rido della sua voce baritonale, della sua rabbia giovane, del suo essere sconcertato a tutti i costi, del suo tentativo disperato di tenermi alla larga.

E ad un tratto che sento come uno sbuffo, poi un risucchio, mi giro verso di lui e lo trovo piegato su di sé e dal niente la sua cascata di risate.

Ci guardiamo e ridiamo, l’uno accanto all’altro, le sedie allineate, ciascuno di noi ad occupare il proprio spazio, quando d’improvviso lui allunga il suo braccio ormai robusto e cinge le mie spalle.

Foto di Giovanni Matta